“Tuo fratello”

Parte 2 di “Nun me ricordo che vor dì essere umano”

Sabato, 00.59

“Che c’hai Fè?”
“Che c’ho? E che ce devo avè?”
“Nun me prenne per il culo Fé! Ce conosciamo da dieci anni, ce sta quarche problema?”
“Eh Nì, il solito! Ce sta mamma che me porta a casa sta gentaglia. Nun me piace studià, ma nun ce sta ‘n cazzo da fa e me tocca venì a scuola lo stesso. Che te devo dì?”
“Nun me devi dì niente fra! Famme solo sta tranquillo che se ce so problemi me fai sapè, eh?”
“Certo Nì! Promesso”

Nico e Fede si conoscevano fin da bambini. Stavano nella stessa scuola del Polacco in via del Tempio. Fede s’era trasferito lì vicino con la mamma a casa dei nonni, dopo che il papà se n’era andato coll’altra. Con Nico passava le giornate intere! A giocare a Fifa con la play, picchiarsi se uno dei due faceva uno sgarro e tifare la Roma ogni domenica pomeriggio. Ma Nico aveva un anno in più, dalle elementari uscì un anno prima e per giunta si trasferì con la famiglia dall’altra parte di Roma. Si ritrovarono anni dopo perché Fede si trasferì con la mamma non troppo distante da Nico. Facevano lo stesso liceo ma avevano vite estremamente diverse. Nico l’anno dopo se ne sarebbe andato a studiare a Milano, Fede non sapeva manco se avrebbe superato il quarto anno.

“Vabbè, Fè! Ce semo”
“Ce semo, ce semo”
“Beh? Nun scenni?”
“No, sì… Vabbè, vado Nì!”
“Tutto a posto sì?”
“Tutto a posto Nì”
“Seh vabbè! Buonanotte allora”
“Buonanotte Fra!”

Sabato, 02.38

“Pronto?”
“Ao Mà! Che dici?”
“Ao Fè! C’hanno cacciati Amò”
“Sì, m’ha detto Nico. Tutto a posto?”
“Seh dai, sto sotto casa! Te? Tua mamma?”
“Il solito! Ce sta uno”
“Uno tipo?”
“Eh boh, nun ce parlo tanto co mamma”
“Ah, vabbè…”
“E senti, che v’hanno chiamato gli sbirri?”
“Nono, ‘na vecchia rompicoglioni! Je stava a minaccià de chiamà i genitori a Nico, che già c’hanno problemi de lavoro”
“La vecchia che sta di fronte?”
“Eh, la vecchia che sta di fronte!”
“E quindi alla fine v’ha cacciato lui?”
“Eh, diciamo… Je stava pe lancià ‘na bottiglia alla vecchia! Ce siamo messe io e Giù insieme pe fermarlo e convincerlo a spegne tutto e mandà ‘a gente a casa”
“Ah ‘nfatti nun me pareva tanto sereno quando m’ha scritto”
“Eh, sereno ‘na cifra! Vabbè amò, te devo lascià che ce stanno i miei che dormono a casa. Ce sentiamo domani eh?”
“Okay Mà! A domani allora. Buonanotte”
“Buonanotte Fé, te vojo bene!”

Marghe stava poche centinaia di metri distante da Nico in un appartamento condominiale, con la madre, che le aveva fatto già sei chiamate, il padre ed il fratello maggiore. Prima di raggiungere il portone, attraversò un breve vialetto ciottolato su cui battevano forte i tacchi. Per non disturbare tutti e non svegliare i suoi, si tolse le scarpe per fare le scale. Stava al sesto piano e non c’era l’ascensore. Ci mise un po’, far le scale mezza presa dall’alcol non era mica facile. Fece per mettere la chiave nella toppa che la porta le si aprì davanti.

“Ao, che ci fai sveglia ma’?”
“Te il telefono ce l’hai pe collezione?”
“Sta ‘a batteria a terra ma’, guà! Che c’è?”
“Tuo fratello”
“Mio fratello che?”

Marghe mise piede in casa. Si guardava la mamma tutto il tempo, spaventata. Suo fratello che? Finché girando lo sguardo per casa non lo vide sul divano con suo padre accanto.

“Cazzo Frà, che t’hanno fatto?”

Marghe lasciò scarpe e borsa a terra per gettarsi sul fratello. Gli sanguinava il naso, aveva un occhio gonfio ed il labbro pesto. Quel foulard appeso al collo, giallo con i fiori, che a Francesco gliel’aveva regalato Marghe, stava zeppo di sangue. E Frà piangeva, come un bimbo che s’è preso le strigliate della mamma.

“L’hanno accerchiato, sti burini der cazzo” le rispose il padre.
“Ma dove Frà? Ma stavi solo?”
“No Mà, stavo co Claudio! Je l’hanno date pure a lui”
“Sti fasci del cazzo, dobbiamo denuncià!”
“Denuncià a chi? A sti du’ cojoni? Se magari la smettessi pure te de vestirte come ‘na ragazza”
“Ao pa’, nun te ce mette pure te! Nun me stai a confortà così”
“Me preoccupo Frà, prima de inizià a vestirte così nun succedevano ste cose”
“Nun me frega ‘n cazzo pa’, mo levate pure te”

Frà s’alzò dal divano passando davanti a Marghe e schivando pure la madre. Entrambe gli diedero appresso ma Marghe passò prima, intanto però Frà s’era già chiuso in camera.

“Cazzo Frà, me fai entrà? Che ce fai tutto solo, che te dobbiamo pure medicà”
“Nun me rompete, vojo stà solo”
“Frà… Sono mamma! Fam…”
“Levateve e basta! Ce stà domani pe parlà”

Marghe si strinse alla mamma, che non stava affatto tranquilla, ma era decisa a rassegnarsi per la scelta di Francesco. Nel frattempo, il padre, non contento e col rimorso, sbuffava nel soggiorno. La mamma lo raggiunse poco dopo e Marghe, ancora brilla, decise di chiudersi in bagno per chiamare Fede.

Che la terra non è mica il cielo

“che smetto di scrivere
e poi non smetto mai.”

Vorrei fermarti dove sei.
Che con tutto il disprezzo e la mia contrarietà, in questo mondo, che ci appartiene, tornerai qui a tormentarmi e catturarmi.
Avvicinarmi piano mentre dormo.
Che tieni stretto il desiderio, accendi il dolore e non paghi l’affitto.
E tutte le volte che prometti di scordarmi, mi fai sudare come la gente; e divento geloso ma anche più insulso.
Che sento represso un senso di nausea, e tu sei lì, che non è qui, e poi ascoltarti piano, che mi estendi le visioni, e in fondo temere di inciamparti sul corpo! distrattamente.
E semmai sapessi l’ora del tuo risveglio, fiorirei i tuoi passi, accenderei il tuo Sole.
Ti porterei la musica, i sogni e le fiamme, orchestre di nuvole bianche come colazione.
E piangeremo insieme, per ridere meglio.
Che se diventassi vento ti solleverei, che la terra non è mica il cielo.
E potrei non volerti più, ma solo fino a domani.

Che non mi sento di dover finire

A che scopo poi spiegarti cosa senti? Dissipandoti nel ventre del suo sguardo ti senti invadere di musica ed il tuo suono si trasforma. Gli occhi sanno accendere il bruciore delle rabbie, delle stragi della mente che ti immagini di notte, mentre attendi il sonno tuo, latente. È stata potenza, la grandezza del suo sguardo che ti impose la vita intorno all’animo. Poco t’importava se nel caso poi dovessi camminare sulle braci, sopra gli incubi distesi e incarceranti. E l’anima dissolve in tanta fretta. Ti vien da piangere, scappare! Riprendi a piangere e di colpo la memoria del passato ti inghiotte per errore. Un errore che hai commesso; che commetterai ancora, mille volte con dolore. E sarà sempre una ricerca continua; dei suoi occhi, il suo sorriso, il suo profumo.Cerchi in ogni dove il suo cammino. Del suo posto ne farai casa. Del suo corpo, desiderio.
E del suo nome ne farai il tuo.
E ci hai provato! ed hai fallito. Ma che importa? Riproverai ancora, e ancora fallirai. È che non ti senti di dover finire. Perché lui ti fa “tremar le vene e i polsi”. Eppure guardi il cielo! e dato che ci sei, tira un’occhiata fin dove arrivi! e poi raccontami.
Che io non vedo, che tengo gli occhi chiusi. Che forse sono un poeta, e vivo di sogni, e proprio non mi sento di dover finire.

Come un Angelo da collezione

Ed ecco qui che stai qui con te, nudo sotto un portico piovoso ed asfissiato dai vapori che hai fumato, quelle nebbie tenebrose con un mix di vandalismo e tanto alcol. Con la musica e il peccato, la dimenticanza ti ha assalito e per svago hai preferito il tuo dolore ai bei sogni. Che certo, ti ha tradito, s’è fatto qualcun altro e si è vantato!
Ma sei uscito, intingendo le tue lacrime d’azzurro, bagliore intenso, per fingere e inventare la tua nuova felicità; pronto, incauto, le caviglie strette che ti tengono su in piedi; la luce in mezzo agli occhi, sofferenti dei fumogeni attivati per negare lo sconforto.
E ti ripeti “non è niente!”, bagni le tue labbra con un succo rinfrescante.
Pettinato e profumato, decorato dai vestiti più cangianti che nascondono il tuo corpo, solo maglie firmate e boxer senza onore. Ti trascini, debole tra gli spettri di finzione, dentro un mondo artificiale creato su misura. Ti trascini coi tuoi cocktail tra i bar della città, deluso e troppo illuso dai tempi e spaventato, terrorizzato dagli spazi che ti accerchiano. Qui! Tu stai qui da solo, come sempre.
Poi lo pensi! Ed i pensieri tuoi, appannati, schiariscono del tutto in mezzo al buio. Pensi al profumo, al buon sapore, la sensazione del suo corpo, che lo tocchi e lo respiri; e le luci ti fanno sudare, lo sguardo del mondo vergognare. Inizi a sentire il tuo nome passare tra la bocca dei tanti, così fuggi, rispondi poi neghi e ti nascondi. E ti ripeti le parole, incapace di gestirle, di afferrarle, fuori di te.
Poi guardi altrove.
Ti senti un bambino disfatto, lasciato da solo in mezzo alle nuvole mentre fuori piove ed il cielo ti urla contro quanto hai sbagliato! e lo vedi, l’altro uomo che gli dorme accanto, che gli sfiora cauta la schiena, scivolando con le dita sul suo corpo mentre il tempo passa e non ti accorgi del silenzio che ti avvolge, ti incupisce e non riesci più a sfuggire.
E ti manca il respiro, ne senti la sete eppure quel che è fatto resta.
E lo sai, non puoi andare oltre, non puoi vestirti meglio e ritornare indietro. Puoi cntinuare a pensare e leggere l’angoscia, che ti sembra d’essere incapace a soffrire.

Ma tu sei una stella brilla, che si affligge nei suoi spazi violati da un estraneo che ha nutrito falsità ed emozioni. Tu ci pensi e poi lo chiami, col suo nome, come amore.
Come un angelo da collezione.